Trasformare la pubblica amministrazione con una metodologia partecipativa

L'autore
Luisella Erlicher, docente MIP, Politecnico di Milano, partner della società Mays International

Stefania Allegretti, Responsabile Ufficio Sviluppo Organizzativo della Provincia Autonoma di Trento 

    Il dibattito attuale sul cambiamento necessario nella Pubblica amministrazione per rinnovare il senso del valore aggiunto pubblico e per massimizzarlo mette in luce un panorama variegato e diverso di concettualizzazioni e di esperienze pratiche. Sono teorie ed esperienze dove il concetto di trasformazione viene declinato in una gamma di strategie e di pratiche, volte alla valorizzazione e alla partecipazione delle persone interne e a farle agire in interdipendenza con le reti dei cittadini e le organizzazioni di stakeholder. Se la trasformazione è l’obiettivo, la tendenza è quella di realizzarla attraverso l’investimento sullo sviluppo della persona, sulla partecipazione dei team e su un nuovo significato dei servizi: tutto ciò pensato all’interno e condiviso e arricchito attraverso la relazione con la comunità esterna. Un nuovo modo di creare valore nella Pa è possibile se si riparte dalle persone, attraverso metodologie partecipate di innovazione organizzativa, come dimostra l’esperienza realizzata da un pool di manager e di operatori della Provincia Autonoma di Trento (PAT).


    L’esperienza è stata messa a standard e approfondita allo scopo di proporre l’idea di un rinnovamento della Pa che si fonda sulla capacità dell’organizzazione e delle persone di riflettere su se stesse: partire da sé e cambiare, rifocalizzando obiettivi, responsabilità e modi di agire per dare il contributo alla creazione del futuro.

    Alla base della metodologia di trasformazione partecipata nella Pubblica amministrazione alla quale ab- biamo lavorato per due anni, a partire dal contesto applicativo della Provincia Autonoma di Trento (PAT), sono da annoverare alcuni concetti che costituiscono il risultato sia dell’odierno dibattito della comunità scientifica internazionale che studia la Pa sia delle linee guida dei Progetti Ue per la transizione al 2020 (European Commission, 2016) e di altri studi Ue (European Commission, 2013).

    Ci ha guidato prima di tutto un’idea di bene pubblico inteso come quell’ insieme di valori, prodotti e servizi che fanno bene alla vita umana e sociale (Felber, 2015). Su questa base il valore aggiunto pubblico si definisce come capacità dell’ organizzazione di creare valore non di scambio, ma di utilità. Quel portato di fiducia sociale, senso di appartenenza e di una visione sostenibile del vivere insieme che si generano attraverso modalità a rete, collaborazione tra istanze diverse, partecipazione sia della comunità dei cittadini sia della comunità interna delle persone al lavoro nella Pa. Risulta quindi chiaro che non ci rifacciamo a un concetto classico di efficienza che ha permeato il modello manageriale tecnocratico seguito dalla Pa a livello sia europeo sia nazionale nel più recente passato (Kickert, 2002). Ci inseriamo invece nel filone di pensiero che ritiene che la Pa stia entrando, dal 2010 in poi, in un nuovo ciclo, quello del governo sostenibile (Grin, Rotmans e Schot, 2010), caratterizzato dal tentativo di rispondere alle crisi ambientali, alle sfide della globalizzazione, alla reazione dei protezionismi nazionali e alle sfide della trasformazione tecnologica. Proprio in coerenza con questo punto di vista abbiamo messo alla base del nostro lavoro l’efficienza sistemica (Dallago, 1996), che si ottiene manovrando non solo risorse monetarie, ma usando meno di tutte le risorse attraverso una modifica profonda dei fattori interni, una valorizzazione delle risorse interne che vengono chiamate a una cooperazione strutturale. E a tal fine già solo percepire l’inefficienza sistemica può essere uno dei fattori che inducono un
    cambiamento rapido.

    Per questo motivo un ultimo e basilare concetto che abbiamo utilizzato per caratterizzare il tema della partecipazione nella Pa è quello di autonomia
    riflessiva (Koestern e Losier, 1996), derivato dalla psicologia comportamentale, dove denomina quella percezione di agenticità, quel sentirsi all’origine delle proprie azioni e avere voce nel determinare i propri comportamenti che si origina in con- testi interpersonali dove si possono fare scelte informate, basate sulla consapevolezza dei propri bisogni, interessi e valori. Se queste teorie si applicano nel contesto della Pa i cittadini, da consumatori di servizi pubblici, vengono chiamati a essere attori consapevoli e i dipendenti pubblici da esecutori a consapevoli professionisti, dei quali si esalta il potenziale attraverso sistemi di partecipazione che ne sollecitano riflessione, ideazione e responsabilità nel delineare scopo e futuro della propria organizzazione. Nel riportare la metodologia messa a punto e applicata per la trasformazione organizzativa della Pa, attraverso l’analisi del caso della PAT, ci atterremo al secondo aspetto, quello della trasformazione interna, che ci dà modo di delineare gli aspetti delle modalità specifiche della partecipazione che si possono promuovere nella Pa.

    FONDAMENTI E PRINCIPI DELLA TEORIA

    I FONDAMENTI COGNITIVI

    Ci è parso importante ripercorrere brevemente le origini del metodo nella scienza occidentale e le sue evoluzioni perché l’elaborazione di metodologie organizzative possa trarre vantaggio dalla chiarezza di concetti che spesso si applicano in maniera poco approfondita, come se fossero
    stati inventati dalle discipline manageriali stesse e non invece ereditati, cosa che impedisce di sfruttare appieno il potenziale logico e operativo dei metodi stessi. Faremo quindi un sintetico excursus la cui necessità risulterà chiarita dall’ argomentazione successiva.
    Il metodo nasce come sappiamo nel Seicento, quando si afferma il bisogno di una conoscenza fondata del mondo che ci circonda, che trovi basi solide nel ragionamento e nell’ esperienza e che risponda a domande che il genere umano si pone da sempre sull’ origine e sul funzionamento dell’universo e dei fenomeni naturali. Si afferma così il metodo scientifico. Dapprima come procedura logica, condotta ordinata dei propri pensieri, composta da principi logici e dalla sequenza logica della loro applicazione. Il primo impulso che avvia il metodo è, in Cartesio, la riflessione interna, il cogito, sulla propria mente, che consente di vedere apparire le idee intuitive tra le quali saranno accettate solo quelle che “mi si presentano in modo chiaro e distinto” (Descartes, 1634).
    L’evidenza, l’analisi e la sintesi formano le tappe del rigoroso metodo cartesiano che si avvale della matematica per le formalizzazioni necessarie.
    Erano passati solo pochi anni da quando Galileo aveva dato il via a una vera e propria rivoluzione del pensiero, introducendo l’e- sperimento come parte fondamentale del metodo scientifico e confutando le interpretazioni precedenti sull’ astronomia, la meccanica e la fisica. Galileo osserva le fasi lunari con il cannocchiale (uno strumento tecnico che per la prima volta si mette al servizio della scienza), guarda il rotolare di una sfera su un piano
    inclinato; Newton osserva i corpi che cadono a terra attratti dalla forza di gravità (Newton, 1637).
    “Tra le sicure maniere di conseguire la verità è l’anteporre l’esperienza a qualsivoglia discorso non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero” (Galilei, 1632). Lineare, ma innovativa, la procedura del nuovo metodo scientifi-co: osservo e dall’osservazione individuo un problema, formulo ipotesi, le verifico attraverso l’esperimento che riproduce in maniera controllata il fenomeno da studiare. Lungi dall’ affidarsi all’ evenienza, il metodo scientifico stabilisce un controllo sull’ esperienza attraverso regole precise.
    A che cosa ci serve ripercorrere la rivoluzione intellettuale che ha portato all’ affermarsi della scienza come possibilità di estendere la conoscenza, di immaginare nuovi modelli, di vedere oltre? Proprio ad affermare che la guida del nostro lavoro di cambiamento organizzativo è idea di fondo che intende la conoscenza come una comprensione attiva delle cose e utilizza processi mentali, il gioco dell’alternarsi di induzione e deduzione e strumenti come l’osservazione e i dati, per interpretare la nostra esperienza con punti di vista che vogliono raggiungere una comprensione sempre più veritiera e sottile di come sono fatte e funzionano le cose. Se questi sono gli aspetti cognitivi della nostra metodologia vi sono ora da trattare gli aspetti operativi capaci di generare il cambiamento attraverso l’azione.

    I FONDAMENTI OPERATIVI

    Dal punto di vista operativo, la nostra metodologia si propone una trasformazione dell’organizzazione facendo ricorso sia ai metodi classici del miglioramento Lean production sia a metodi più specifici dell’innovazione quali il design driven innovation (Vergan- ti, 2009).
    L’idea guida del Toyota Production System, da cui sono derivati sia il modello Lean che quello World Class Manufacturing (WCM), è di aumentare l’efficienza attraverso l’eliminazione totale di tutti gli sprechi, potenziando l’uso delle risorse: fare di più con meno, meno input a parità di output (riduzione della spesa) oppure più output a parità di input (aumento della produttività). Tutto ciò rimanendo all’ interno di un quadro di riferimento dato. Il modello applica sia metodi di tipo analitico sia di tipo operativo valorizzando l’osservazione diretta e l’esperienza di chi svolge direttamente il lavoro. Il Toyota Production System e il WCM si avvalgono di azioni come l’osservazione diretta, la raccolta di dati, l’individuazione delle cause di sprechi e perdite e la messa a punto di soluzioni per un modo nuovo di fare le cose. Va detto che un aspetto fondamentale del modello Lean organization, che spesso viene trascurato nelle applicazioni che se ne fanno nel nostro Paese e in particolare nella Pa, è l’autonomia delle persone che viene stimolata attraverso la loro mobilitazione cognitiva. I sistemi di partecipazione che costituiscono il cuore della Lean prevedono l’attivazione autonoma delle persone non solo nell’ analisi e diagnosi delle attività del posto di lavoro, ma anche nel ridisegno del processo e nella progettazione del prodotto e del servizio, facendo collaborare insieme gli ingegneri e gli operai, gli operativi e gli specialisti tecnici. Da qui si generano responsabilità e autonomia, perché le persone percepiscono che quanto è da loro pensato e proposto conta, ha valore, pro- duce risultato. Ma la nostra metodologia non è stata pensata solo per fare miglioramento ed efficienza. Trasformare la Pa oggi vuole dire soprattutto inventare nuove viste del servizio pubblico, nuove opportunità per le persone interne, per l’organizzazione e per la cittadinanza.
    Come si sa, l’idea guida dell’innovazione è la discontinuità, è creare nuovi paradigmi di significato a partire da nuove interpretazioni del servizio e dell’utilizzo che se ne può fare. Così le opportunità offerte da nuove tecnologie, nuovi bisogni sociali, nuove tendenze economiche possono contribuire all’ ideazione. E ideare significa sia pensare ciò che non è ancora stato pensato sia combinare in maniera inusuale ciò che è già conosciuto. Non si tratta quindi soltanto di sperimentare nel proprio lavoro di dipendenti pubblici una maggiore vicinanza, diremmo quasi empatica al cittadino. Anche se questa attitudine è fondamentale nel ripensare una Pa capace di produrre valore per le persone, essa può generare una innovazione incrementale, ma non la radicalità della trasformazione di cui si avverte prepotentemente il bisogno. Design driven (Heskett, 2002), ossia farsi guidare nel modellare il contesto di produzione e di utilizzo dei servizi dai modi in cui soddisfare bisogni e in cui dare significati al vivere quotidiano è stato quindi il nostro orizzonte. Partendo da qui si possono infatti intravedere configurazioni organizzative partecipate, processi e procedure utili e semplificati, professioni arricchite e a tutto tondo e una gestione attenta alle persone e non solo alle tecnicalità degli adempimenti.